IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 224 del 1995, proposto da Sambo Antonio, rappresentato e difeso dagli avv.ti Flaminio Maffettini e Maria Ughetta Bini, ed elettivamente domiciliato presso il secondo difensore in Brescia, via Ferramola n. 14; contro il Ministero delle finanze, Direzione generale degli affari generali e del personale, in persona del Ministro pro-tempore e l'Ufficio tecnico delle imposte di fabbricazione di Bergamo, in persona del direttore pro-tempore costituitisi in giudizio, rappresentati e difesi dall'Avvocatura distrettuale dello Stato, ed elettivamente domiciliati presso la stessa in Brescia, via Solferino n. 20/c; per l'annullamento delle note prot. n. 63/ris. del 19 dicembre 1994 e prot. n. 59/ris. del 2 dicembre 1994, entrambe a firma del direttore dell'Ufficio tecnico delle imposte di fabbricazione di Bergamo, recanti ad oggetto il diniego di riammissione in servizio; e per l'accertamento del diritto del medesimo ad essere reintegrato in servizio con decorrenza 1 dicembre 1994, con ogni ulteriore conseguenza ed effetto anche retributivo; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della resistente amministrazione; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle proprie difese e domande; Visti gli atti tutti della causa; Data per letta, alla pubblica udienza del 12 maggio 1995, la relazione del cons. Sergio Conti; Uditi: l'avv. M.U. Bini per il ricorrente e l'avv. dello Stato R. Montagnoli per la resistente; Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue: FATTO Il deducente dott. Antonio Sambo e' dipendente dell'Amministrazione delle finanze avente la qualifica di collaboratore tributario. Con decreto n. 8896 del 1 dicembre 1993, il Ministero delle finanze ne ha disposto la sospensione dal servizio - ai sensi del combinato disposto del primo comma, lettera b) e 4-septies dell'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 - in relazione alla avvenuta condanna del medesimo, con sentenza del tribunale di Verona, per il reato di cui all'art. 314 del c.p. Tale provvedimento e' stato fatto oggetto - da parte del Sambo - di ricorso innanzi a questa sezione (gravame che risulta rubricato al n. 211/1994 r.g. ed e' tuttora pendente). Con istanza in data 23 luglio 1994, integrata con nota del 28 settembre 1994, il medesimo dipendente ha chiesto di essere riammesso in servizio, in applicazione dell'art. 9 della legge n. 19 del 1990. A fronte del silenzio dell'Amministrazione, lo stesso ha presentato una nuova, piu' articolata, istanza in data 31 ottobre 1994, rilevando che, al 1 dicembre 1994, si sarebbe compiuto il quinquennio di sospensione dal servizio, comportante (ai sensi del richiamato art. 9) l'obbligo della riammissione. Va precisato che il quinquennio di sospensione e' la risultante della sommatoria di anni uno di sospensione di cui al decreto in data 1 dicembre 1993 e di un precedente periodo di anni quattro di sospensione dal servizio (dal 31 gennaio 1986 al 28 febbraio 1990) adottato dall'Amministrazione a seguito dell'esercizio dell'azione penale in relazione ai fatti per i quali e' stata emessa la sentenza di condanna da parte del Tribunale di Verona. Con nota recante la data del 2 dicembre 1994, il direttore dell'Ufficio tecnico delle imposte di fabbricazione di Bergamo ha partecipato al Sambo che la direzione centrale del personale non aveva ritenuto di potere accogliere l'istanza di riammissione in servizio. Con nota datata 19 dicembre 1994, il medesimo direttore ha comunicato l'avvenuto rigetto anche della seconda domanda di riammissione. Entrambe le note sono cosi' motivate: "l'istanza in questione, in mancanza di fatti nuovi rispetto a quelli che hanno determinato la sospensione, non puo' essere presa in considerazione sulla base della semplice affermazione che la legge n. 16/1992 non ha innovato rispetto al termine fissato dall'art. 9 della legge n. 19 del 1990". I due dinieghi sono impugnati in questa sede con atto notificato in data 17 febbraio 1995 e depositato presso la segreteria della sezione il 27 febbraio 1995. Il ricorrente ha articolato le seguenti doglianze: 1) violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 9, secondo comma, legge n. 19/1990, art. 15, comma 4-septies, legge n. 19/1990 come sostituito dall'art. 1, legge n. 16/1992, art. 27 Cost.). L'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 dispone: "la destituzione puo' sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni. Quando vi sia stata sospensione cautelare dal servizio a causa del procedimento penale, la stessa conserva efficacia, se non revocata, per un periodo di tempo comunque non superiore ad anni cinque. Decorso tale termine la sospensione cautelare e' revocata di diritto". Tale norma deve ritenersi vigente anche dopo l'entrata in vigore della legge 18 gennaio 1992, n. 16 che impone l'immediata sospensione dal servizio del dipendente che incorra in una condanna anche non definitiva per uno dei reati da essa previsti; 2) violazione di legge (art. 3, legge n. 241 del 1990), motivazione insufficiente, generica ed incongrua, difetto di istruttoria. Le risposte dell'Amministrazione risultano motivate in modo insufficiente e generico, le stesse dimostrerebbero la volonta' di eludere il preciso obbligo di legge. Il ricorrente, sulla premessa della sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere la riammissione in servizio con il decorso del termine quinquennale, introduce, inoltre, una azione di accertamento del proprio diritto alla riammissione con decorrenza 1 dicembre 1994, instando, infine, per il riconoscimento dei conseguenti diritti patrimoniali. Si e' costituita in giudizio l'intimata Amministrazione chiedendo il rigetto del gravame, di cui contesta il fondamento. Alla pubblica udienza del 12 maggio 1995, il ricorso e' stato trattenuto in decisione. DIRITTO Il ricorrente, collaboratore tributario in forza all'Ufficio tecnico delle imposte di fabbricazione di Bergamo, impugna i provvedimenti con i quali il Ministero delle finanze gli ha negato la riammissione in servizio da esso richiesta sull'assunto del decorso del periodo massimo di cinque anni di sospensione cautelare dal servizio stabilito dall'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19. Va, preliminarmente, disattesa l'eccezione di tardivita' sollevata dalla difesa erariale. Questa sostiene che il ricorso rispetto al primo provvedimento di rigetto dell'istanza di riammissione risulterebbe tardivo, essendo trascorso un periodo superiore ai sessanta giorni fra la data di comunicazione dell'atto e quella di notifica del ricorso giurisdizionale ed affermano il carattere meramente confermativo del secondo diniego. Va, quindi, osservato che - come esattamente rilevato dal ricorrente - entrambi i provvedimenti comunicati al Sambo risultavano privi dell'indicazione del termine e dell'autorita' a cui e' possibile fare ricorso in violazione del disposto dell'art. 3, quarto comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241. La mancata indicazione, pur non costituendo vizio di legittimita' ma mera irregolarita', comporta la possibilita' di remissione in termini del ricorrente. Cio' premesso, si puo' passare all'esame del merito del gravame. Giova rilevare in punto di fatto che, per quanto riguarda il procedimento penale attualmente pendente nei confronti del Sambo, questi e' stato dapprima sottoposto a sospensione cautelare (dal 31 gennaio 1986 al 28 febbraio 1990) per essere poi riammesso in servizio. In seguito, per il sopraggiungere di sentenza di condanna in primo grado (per la quale pende appello), egli e' stato sospeso dal servizio ai sensi dell'art. 15, commi primo e quarto-septies della legge 19 marzo 1990, n. 55, come modificato dall'art. 1, legge 18 gennaio 1992, n. 16. Circa i rapporti fra la norma di cui all'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, e l'art. 4-septies della legge 18 gennaio 1992, n. 16 ha gia' avuto modo di pronunciarsi - in sede consultiva - il Consiglio di Stato. La sez. I (parere n. 368/1993 del 21 aprile 1993) ha rilevato che la legge n. 16 del 1992 introduce nuove cause di sospensione obbligatoria, ma non muta il regime dell'istituto giuridico della sospensione dal servizio del pubblico dipendente. Dalla constatazione che la citata legge n. 16 e' solo in parte innovativa, la prima sezione ha tratto la conclusione che l'art. 9, secondo comma, legge 7 febbraio 1990, n. 19 risulta applicabile anche alle sospensioni cautelari disposte nei confronti degli impiegati ai sensi della legge n. 16 del 1992. Il termine quinquennale - ha soggiunto il Consiglio di Stato - deve essere computato a decorrere dalla data della sospensione e non gia' da quella di entrata in vigore della piu' volte citata legge n. 16/1992. La prevalente giurisprudenza dei tt.aa.rr. formatasi sul punto si e' orientata nel medesimo senso. Ha rilevato il t.a.r. Lazio (sez. II n. 1077 del 18 settembre 1993) che il quarto comma-septies dell'art. 1 della legge n. 16/1992 ha la finalita' di trasformare in sospensione cautelare obbligatoria quella che per la previgente normazione era una ipotesi di mera sospensione facoltativa. Per conseguenza, quando sussiste una delle fattispecie ivi previste, si deve fare luogo alla sospensione obbligatoria, ma questa si attua pur sempre nei limiti e con le modalita' con le quali la stessa e' prevista dall'ordinamento generale (nello stesso senso sono: t.a.r. Emilia-Romagna, sez. II n. 545 del 12 novembre 1993, t.a.r. Friuli-Venezia Giulia 23 gennaio 1992, n. 8 e 10 febbraio 1992, n. 31). Alla stregua di tale interpretazione, il ricorso dovrebbe essere, quindi, accolto. Peraltro, il collegio dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, nella parte in cui la suddetta norma comporta un indiscriminato obbligo di riammissione in servizio, decorso un quinquennio, del dipendente pubblico sospeso. La prevalente giurisprudenza amministrativa (cfr. t.a.r. Lazio, sez. II n. 1331 del 13 settembre 1991; t.a.r. Latina 1 febbraio 1993, n. 126; Consiglio di Stato sez. VI, n. 186 del 19 febbraio 1993) ritiene che la norma all'esame comporta ipso iure per l'Amministrazione l'obbligo di riammettere in servizio, per il mero decorso del termine di cinque anni dall'adozione del provvedimento di sospensione, il dipendente. Solo t.a.r. Lazio sez. III n. 1053, peraltro annullata, sullo specifico punto, da Consiglio di Stato sez. VI n. 186 del 19 febbraio 1993, ha sostenuto che il quinquennio decorra dalla data di passaggio in giudicato della sentenza che conclude il procedimento penale. La rilevanza della questione che si ritiene di sottoporre al vaglio della Corte costituzionale e' evidente alla luce di quanto si e' sopra esposto. Per quanto attiene alla non manifesta infondatezza si osserva quanto segue. La norma non tiene in nessun conto la situazione processuale (se vi sia stata una pronuncia ovvero se l'imputazione sia ancora in fase istruttoria), ne' distingue il tipo di reato, ne' il tipo di funzioni ricoperte dal dipendente. La giurisprudenza della Corte costituzionale ha, peraltro, rilevato che il fondamentale principio di eguaglianza - sancito dall'art. 3 della Costituzione - risulta violato non solo nel caso in cui la norma disciplini in maniera differente situazioni eguali, ma altresi' quando situazioni differenti siano disciplinate nello stesso modo. Risulta, altresi', violato il fondamentale precetto dell'imparzialita' della p.a. di cui all'art. 97 della Costituzione. L'Amministrazione deve essere posta in grado, di fronte alla commissione di fatti che possono far sorgere sospetti sulla serieta', sulla moralita' e sull'affidabilita' di un soggetto, di valutare la compatibilita' con l'interesse pubblico della presenza di tale soggetto nell'ambito della sua organizzazione. La presenza di una norma - l'art. 9, secondo comma, della piu' volte citata legge n. 19/1990 - che dispone che la sospensione non puo' durare piu' di cinque anni impedisce oltre tale termine l'esercizio di tale essenziale verifica. Infatti, la disposizione di cui all'art. 117 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Statuto degli impiegati civili dello Stato) - che stabilisce che il procedimento disciplinare non puo' essere promosso fino al termine di quello penale - costringe necessariamente l'amministrazione a riammettere in servizio anche soggetti la cui sola presenza e' suscettibile di arrecare turbamento all'esercizio dell'azione amministrativa. Va rilevato che siffatta previsione normativa non puo' essere assimilata, sotto il profilo sistematico, alle norme che pongono limiti alla carcerazione preventiva, atteso che non puo' confondersi l'esigenza di tutelare la liberta' personale con quella a prestare effettivamente (sempre e comunque) servizio alle dipendenze della pubblica amministrazione. Mentre la prima situazione gode di una esplicita garanzia costituzionale, la seconda non e' assolutamente rinvenibile nella Costituzione, che anzi al richiamato art. 97 si orienta in un senso diametralmente opposto, privilegiando espressamente i profili di imparzialita' e buon andamento dell'azione amministrativa. E del resto la finalita' ispiratrice della successiva legge n. 16 del 1992 e' esattamente nel senso opposto. Con la sentenza 9 maggio-16 maggio 1994, n. 184, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate, con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 97 della Costituzione, le questioni di legittimita' dell'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui prevede la sospensione obbligatoria del personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni, nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di condanna per taluno dei reati indicati nelle lett. a), b) e c) di cui al primo comma ovvero nei cui confronti sussistano le condizioni di cui alle lett. e) e f) dello stesso primo comma. La ratio di tale norma - ha osservato la Corte - e' quella di rafforzare la disciplina gia' posta dalla legge n. 55 del 1990, estendendone talune qualificanti previsioni - inizialmente riferite solo ai soggetti legati alla p.a. da rapporto di servizio onorario elettivo o non - a pubblici dipendenti legati alla stessa da rapporto di servizio professionale. Questi ultimi - soggiunge la sentenza della Corte - "possono talora versare in condizione di potenziale maggiore pericolosita' e, quindi, essere fonte di possibili maggiori danni". La finalita' di tale previsione - prosegue la sentenza n. 184 del 1994 - e' quella di apprestare mezzi di tutela volti a prevenire "la pericolosita' eventuale di comportamenti decisionali ed operativi (cfr. sentenze nn. 402 e 407) potenzialmente pregiudizievoli per la p.a.". Ma se tale disciplina, come espressamente rileva la Corte, risulta "intesa alla salvaguardia di interessi fondamentali dello Stato", e' necessario valutare se questi siano adeguatamente protetti da norme che prevedono l'automatica cessazione della sospensione cautelare con il mero decorso di un determinato lasso temporale, escludendo che l'Amministrazione possa valutare la situazione - con discrezionale apprezzamento - caso per caso anche in relazione alle mansioni svolte dal dipendente. Conclusivamente, il collegio ritiene di dover sospendere il presente giudizio e di rimettere alla Corte la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui la suddetta norma comporta l'obbligo indiscriminato di riammettere in servizio dopo cinque anni il dipendente sospeso.